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Health policy

Scienza, comunicazione e politica: appunti dalle lezioni del coronavirus

By 7 Aprile 2020Giugno 14th, 2024No Comments

[Originariamente pubblicato sul sito dell’Istituto Scotti Bassani]

Tutti avremmo preferito altro docente e altri metodi. Ma il coronavirus è qui, sembra avere molto da insegnare e le sue lezioni sono tutt’altro che gratuite. Opinionisti e commentatori si stanno soffermando molto sui contenuti estrinseci di questa lezione, dai quali potremmo trarre insegnamento soprattutto quando la tempesta sarà passata. Ma il risvolto più immediato della questione, mai come in questo caso, va dritto al cuore dei delicati rapporti fra scienza, comunicazione e politica.

Il coronavirus può quindi insegnarci moltissimo su un approccio efficace alla comunicazione e alle relazioni istituzionali nell’healthcare. Perché il virus è invisibile, al pari di qualsiasi altra malattia e persino del colesterolo; perché tutte queste minacce non lesinano danni; perché solo la scienza può dirci come funzionano, ma spesso neanche la scienza è in grado di convincerci sul perché e sul come siano da contrastare; e infine, senza il coinvolgimento della politica, qualunque avanzamento scientifico sarebbe comunque inefficace nell’avversare la minaccia.

Sul piano didattico, il coronavirus ha poi due grossi vantaggi rispetto alla sfida della divulgazione scientifica, ad esempio, sulla prevenzione o sulla corretta alimentazione: incubazione brevissima e ricadute immediate, con gli ospedali che si affollano d’improvviso. E questo accelera i test sull’efficacia delle strategie di contenimento, le quali altro non sono che un mix di comunicazione e policy.

Per esplorare il confine di questi ambiti, già diversi registi cinematografici, non a caso, hanno lavorato sul paradigma dell’epidemia: uno stress test che sollecita tutte le scienze, incluse quelle sociali, e quindi fa più che mai al caso nostro.

Da pratico, direi da “manovale” del rapporto fra scienza, comunicazione e politica, mi limito a trascrivere qui di seguito pochi appunti dalle lezioni del coronavirus.

Complessità

La prima lezione mi sembra di ordine epistemologico, e rinvia alle categorie dell’ambiguità e della complessità. Perché proprio la scienza – madre di ogni certezza apparente – si sta rivelando ineluttabilmente ambigua, avendo a che fare con fenomeni complessi.

Il coronavirus, sul punto, è stato particolarmente impietoso. Ci ha costretto a trasmettere per televisione, quasi in diretta, ciò che di solito è il “dietro le quinte” della fatica scientifica: procedere per ipotesi, tentare, brancolare nel buio, imboccare il sentiero sbagliato, tornare indietro, fraintendere. Eravamo così distanti da questa fatica – illuministicamente assuefatti alla presunta infallibilità della scienza – che assistere agli inciampi dei ricercatori ci ha lasciati a volte di stucco, sgomenti, a volte francamente atterriti.

“È poco più di una banale influenza” è una frase che ancora risuona nelle nostre orecchie. Sappiamo bene che non l’hanno pronunciata i giornalisti, ma insigni virologi. Questi scivoloni, oggi, ancora non riusciamo a perdonarli fino in fondo. Fra qualche tempo però, quando quegli stessi scienziati ci avranno tirato fuori dall’emergenza, vedremo anche i loro errori in un’altra prospettiva. Saremo cioè maturati sul piano della comprensione del metodo scientifico. Riguardo a ciò, il punto è il trascorrere del tempo, che serve tanto agli scienziati – per affinare le conoscenze – quanto a noi per valutarle nella giusta prospettiva. E ciò perché la conoscenza umana è sempre dialettica: tanto che sia di ordine scientifico quanto di carattere morale (il famoso giudizio…). Avanza cioè per osservazioni, deduzioni e induzioni, che non possono che procedere in modo diacronico. In due parole, richiedono tempo. Ma non basta: oltre che di tempo, il sapere umano ha bisogno di un oggetto delimitato. Commisurato, cioè, alla nostra capacità di osservazione e di comprensione. Per questo gli scienziati usano strumenti – dal telescopio ai reagenti chimici – e soprattutto modelli. I modelli servono per osservare, in piccolo, fenomeni che supererebbero, per complessità o semplicemente per dimensioni, le nostre capacità di esaminare e comprendere. Ma i modelli sono anche l’anello di congiunzione fra scienza e comunicazione, perché entrambi gli ambiti fanno appello alla facoltà, squisitamente umana, dell’astrazione.

È l’astrazione a rendere la scienza possibile e utile. Possibile, perché ci consente di capire i fenomeni, giacché deduzione e induzione altro non sono che forme di astrazione. Utile, perché ci permette di prevederne gli esiti, per avvantaggiarcene o per schivarne le minacce.

Ma c’è di più: la stessa astrazione consente anche la divulgazione scientifica. E questo perché il rapporto che lega il contenuto scientifico – in tutta la sua complessità e il suo rigore – e il messaggio che si consegna al grande pubblico, è lo stesso rapporto che intercorre fra fenomeno naturale e osservazione scientifica. In altre parole, tanto lo scienziato quanto il divulgatore scientifico ricorrono a modelli, perché entrambi hanno l’esigenza di semplificare. E per questo entrambi si servono dell’astrazione.

Eppure il doppio rinvio a modelli semplificati nulla sottrae alla verità scientifica. Tanto che Einstein scrisse “Non hai veramente capito qualcosa finché non sei in grado di spiegarlo a tua nonna”.

La prima lezione del coronavirus ci parla quindi della stretta affinità fra ricerca e divulgazione scientifica, e ci offre a mio avviso il razionale di un convincimento che tutti già possedevamo: non c’è miglior comunicatore scientifico dello scienziato stesso, purché sappia comunicare; ma se lo scienziato non sa comunicare, un bravo umanista saprà divulgare decisamente meglio ciò che non sarebbe mai in grado di osservare né di comprendere. E questo perché “costringere” a comunicare un ricercatore poco versato – cioè poco abile nel modellizzare e nell’astrarre – equivale a porre davanti alla lente del microscopio non un virus o una molecola di lipidi, ma un paziente contagiato o un obeso.

Altro insegnamento che si può trarre da questa prima lezione, a partire dalla constatazione del continuum – logico, perché dialettico – fra scienza e divulgazione, è che non tutti gli uomini possono fare scienza, ma tutti possono comprenderne i contenuti e i risultati salienti: non solo la nonna di Einstein…

Sia che si tratti di sconfiggere il coronavirus sia che l’obiettivo sia promuovere la dieta mediterranea, quel che occorre per rendere tutti partecipi fino in fondo del progresso scientifico – e così trarne giovamento a livello sociale – è affinare i modelli.

In altre parole, dedicare tempo e risorse tanto alla ricerca scientifica quanto alla divulgazione. E da ciò discende ancora che la scienza – nel suo farsi e nel suo diffondersi per mezzo della comunicazione – è massimamente democratica. E quindi che sarebbe antidemocratico ritenere una parte dei cittadini non all’altezza della scienza.

E ancora, che sarebbe ingenuo tenere fuori dal circolo della divulgazione scientifica aziende e portatori d’interesse. Se le aziende sono ammesse al finanziamento non condizionante della ricerca, è utile che lo siano – purché in modo parimenti non vincolante – quando si tratti di comunicare la scienza. E ciò, se non altro, perché entrambi gli sforzi sarebbero soverchianti senza le risorse, umane e finanziarie, che solo il mondo dell’impresa può mettere al servizio del sapere.

Dovere e volere

Se la prima lezione del coronavirus riguarda il livello epistemologico, la seconda ha a che vedere con la deontica, e più nello specifico con la capacità della scienza di generare conformazione, cioè comportamenti sociali coerenti con le evidenze.

A questo livello il sapere scientifico deve aprirsi alla scienza giuridica e alle logiche della politica, e non è detto che si tratti di un incontro incruento. Le scienze infatti, e giustamente, tendono all’esaustività, cioè alla massima completezza all’interno del proprio ambito.

Ma questo non sempre favorisce le aperture ad altri campi, e di frequente, al contrario, genera arroccamenti.

La dinamica della chiusura caratterizza del resto tutti i saperi, quando si pongano come fini e non come mezzi. E però in fase deontica, prescrittiva, l’obiettivo della scienza è esattamente quello di uscire da sé, per perseguire un fine estraneo al proprio statuto scientifico: un fine altro, esterno, rispetto al quale ciascuna branca scientifica, di per sé, non ha nulla di utile da dire.

Anche qui, la pandemia in corso è paradigmatica: nessuno dubita che i virologi conoscano l’agente patogeno meglio di chiunque altro, e probabilmente, in astratto, i virologi saprebbero anche come arginarlo nel modo più efficace.

Solo che questa conoscenza, in fondo, non interessa a nessuno. Perché tutti sono focalizzati nient’affatto sul rigore in sé della soluzione scientifica, ma piuttosto sul contemperamento delle esigenze. E rispetto a questo contemperamento – a questa necessaria mediazione – benché il problema stia tutto in un virus, la virologia non ha più peso dell’economia o delle scienze sociali.

Nel campo della prevenzione, a partire da una nutrizione corretta, questo problema si pone tal quale, perché al di là degli assunti scientifici persistono limiti nelle risorse disponibili, cattive abitudini alimentari radicate nella popolazione, e anche strategie aziendali a volte in conflitto con i consigli della scienza, basti pensare ai produttori di junk food.

Da questo punto di vista, la seconda lezione introduce, rispetto alla prima, un’ulteriore complessità. Una complessità tra l’altro irriducibile procedendo in modo lineare, perché nessuna delle scienze – pur attraverso qualsiasi modello e qualunque sforzo dialettico – potrebbe mai incorporare saperi altri, ulteriori rispetto al proprio ambito di ricerca.

Qui la complessità, che assume carattere multidisciplinare, genera uno stallo. Ed è esattamente per questo che esiste la politica, al contempo arte del compromesso – in senso di mediazione – e del buon governo.

In queste settimane di epidemia abbiamo imparato a vedere gli scienziati al fianco dei politici, e i politici non di rado dividersi – ad esempio fra livello nazionale e regionale – in merito a decisioni strategiche, scelte particolari e singoli provvedimenti normativi. Tutto fisiologico e tutto frutto della complessità. Ma anche tutto quanto direttamente proporzionale alla capacità della scienza di influenzare, di orientare la politica, sapendo ben presidiare l’ultimo miglio del proprio ambito di competenza, che è proprio – e qui si chiude il cerchio fra prima e seconda lezione – la comunicazione scientifica.

Le relazioni istituzionali in ambito scientifico, del resto, altro non sono che tecniche di comunicazione efficace, che hanno come target un sottoinsieme qualificato di popolazione: i decisori politici.

Da tutto ciò si deduce che la continuità – direi l’unitarietà – fra comunicazione e relazioni istituzionali non è affatto una trovata di marketing delle società di consulenza. Questa unitarietà riposa invece sui confini stessi delle scienze e sulle precipue responsabilità della politica, ossia sulle peculiarità del circolo delle influenze che caratterizza i mercati più complessi. Ecco perché spesso, e non a caso, sono anche i mercati più regolamentati e contraddistinti dal più elevato tasso di approfondimento scientifico.

La seconda lezione del coronavirus ci parla quindi dell’assoluta continuità fra comunicazione scientifica e relazioni istituzionali, soprattutto nel campo delle scienze della vita. Anche qui, cambia poco che si tratti di fermare un virus o di promuovere la dieta mediterranea. Il punto è che la scienza, in sé, è piuttosto debole nel risolvere problemi multidisciplinari e nel generare conformazione sociale.

Più debole della scienza è forse soltanto la legge, nella sua dimensione puramente prescrittiva. Proprio per questo è indispensabile l’alleanza fra divulgazione scientifica e agire politico, anche per via normativa: perché l’unica forza capace di generare conformazione – e quindi trasformazioni sociali tangibili – è una sorta di mosaico fra l’imperativo di legge e il suo fondamento scientifico. E l’unico collante in grado di tenere insieme le tessere è una narrazione efficace, cioè il racconto convincente dei tanti modelli scientifici – tanti perché afferenti a scienze diverse – che suggeriscono una specifica soluzione normativa.

Anche qui, sarebbe un’ottima cosa se l’attività di comunicazione istituzionale potesse essere affidata a uno scienziato, capace, al contempo, di trasmettere il proprio sapere specifico e di prenderne le distanze quel tanto da consentire il dialogo multidisciplinare. Più spesso accadrà che questo compito sia affidato a un professionista.

Resta il fatto che tanto lo scienziato quanto il professionista del settore agiranno – con buona pace di chi ancora non si rassegna – in funzione di lobbisti. Ed è esattamente per questo che all’interno del circolo delle influenze dovrebbe essere sempre promossa la partecipazione delle aziende e dei portatori di interesse in genere: perché è un’attività dispendiosa, al pari della grande divulgazione, e anche perché la chiarezza circa il proponente – ossia riguardo all’identità del comunicatore istituzionale, e alla branca scientifica o agli interessi che rappresenta – non farebbe che facilitare il compito della politica. Giacché qui si tratta, come premesso, di un lavoro di mediazione, e cioè di sacrificare pezzi di verità scientifica in funzione di altre verità scientifiche e di altri beni. Beni e verità aventi tutti, ex ante e in astratto, pari dignità e pari diritti di essere tenuti in adeguata considerazione. Se non altro perché tutti potenzialmente idonei ad alimentare quell’alleanza, fra divulgazione scientifica e risultato politico-normativo, che è uno dei principali motori grazie ai quali evolvono e si sviluppano le società non dirigiste.

Una morale non richiesta

Qui termina il mio ragionamento in veste di “esperto”, come generosamente mi ha definito chi mi ha affidato la stesura di questo contributo. Non riesco tuttavia a non cedere alla tentazione di concludere con una sorta di morale, che va tenuta in considerazione assai relativa, perché esula vistosamente dal mio ambito di competenza. Ad ogni modo, qualora si ritenga condivisibile quanto detto sin qui – in merito al rapporto fra scienza, divulgazione scientifica e politica – bisognerebbe anche ammettere che è proprio la democrazia la forma di governo più efficace nel preservare il corretto funzionamento del circolo delle influenze, valorizzando al massimo il reciproco contemperamento fra sapere scientifico e scienze sociali.

Bisognerebbe quindi considerare le disfunzioni e i ritardi dei sistemi democratici – che fatalmente si palesano nel corso delle grandi crisi, come l’attuale pandemia – come anomalie di funzionamento, e non come limiti di sistema. Ciò ci consentirebbe di relativizzare la paura diffusa che la democrazia generi giocoforza, per sua natura, pericolosi auto-anticorpi. E forse ci aiuterebbe in questi giorni – ma anche quando la normalità tornerà a far capolino – a resistere all’ingenua tentazione di guardare con malcelata invidia alle soluzioni sbrigative, anche se apparentemente più efficaci, adottate da Paesi meno liberali del nostro.

E infine, nonostante i tanti allarmi lanciati in questi giorni, l’adesione a questo punto di vista potrebbe aiutarci a individuare quali potrebbero essere le vere minacce per la democrazia, che a me non sembrano né i virus né particolari schieramenti politici, ma piuttosto tutte le idee riduzioniste e ogni rifiuto dell’oggetto della scienza. Ossia ogni tentativo, più o meno celato, di negare la complessità.